Origini
I Sahrawi, letteralmente “gente del deserto”, come tutti i popoli, sono il risultato di un lungo percorso storico, al quale si è aggiunto nell’ultimo secolo il peso dello sfruttamento coloniale, dell’occupazione militare marocchina e dell’esilio.
Di loro si parla poco, come di tutti i popoli “dimenticati” le cui rivendicazioni vanno a turbare interessi consolidati ed equilibri internazionali delicati.

Dal XIII secolo i Maqil, nomadi provenienti dall’oriente arabo, si insediarono progressivamente nell’odierno Sahara Occidentale, entrando in simbiosi con i berberi, anch’essi nomadi. Da quest’unione si può cominciare a vedere il primo embrione del popolo sahrawi.
E’ quindi dal XVI secolo, periodo pre-coloniale, che si può constatare una netta distinzione politica che separa la regione dal resto del Magreb.

L’indipendenza, il rifiuto di sottomissione ad altri stati, la conflittualità intertribale, la lingua e la cultura arabo-islamica e il nomadismo erano i caratteri dominanti del popolo del Sahara nel corso del XIX secolo. Questo popolo presentava degli elementi di omogeneità abbastanza spiccati, il che consentiva di parlare di un’identità sahrawi anche se non ancora di una coscienza nazionale, sviluppatasi più tardi.

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Colonialismo spagnolo
La colonizzazione spagnola iniziò nel 1884-1885, anno della conferenza di Berlino in cui gli stati europei si spartirono a tavolino il continente africano. Fu creato il Sahara Spagnolo, unendo le due regioni di Saguia el Hamra e Rio de Oro.

Fu solo verso la fine degli anni cinquanta, quando furono scoperti i giacimenti di fosfato nella città di Bu Craa, che la Spagna s’interessò al Sahara Occidentale.

Questo portò a un’aspra lotta anti-coloniale che obbligò la Spagna ad attribuire alla popolazione Sahrawi un documento d’identità.
È proprio in seguito a questo che si poté parlare di risveglio della coscienza sahrawi e da qui iniziò la formazione di una resistenza locale contro lo sfruttamento e i soprusi coloniali.

La fine degli anni Cinquanta, con la maturazione dei movimenti indipendentisti africani e arabi, rappresentò il punto di svolta nella storia della regione. Il Marocco prima, nel 1956, e la Mauritania poi, nel 1960, ottennero l'indipendenza, reclamando entrambi i territori del Sahara Spagnolo.

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Nello stesso periodo il popolo sahrawi inasprì la propria lotta anticoloniale e nel 1973 nacque l’organizzazione armata denominata Fronte Po.li.sa.rio, Fronte Popolare per la Liberazione della Saguia el Hamra e del Rio de Oro.

L’intensa azione del Fronte Polisario e le varie risoluzioni ONU, obbligarono la Spagna nel 1974 a riconoscere il diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza.

Nell’Ottobre del 1974, l’Assemblea Generale ONU decise di ricorrere alla corte Internazionale di Giustizia dell’Aja per un parere sulla questione. Il rapporto della missione ONU rilevò che «La quasi unanimità si pronuncia a favore dell’indipendenza e contro le rivendicazione di Marocco e Mauritania. Il Fronte Polisario all’arrivo della missione si è manifestato come la forza politica predominante nel territorio».

Tuttavia la Spagna abbandonò il popolo sahrawi al suo destino, firmando il 14 novembre 1975, l’accordo tripartito di Madrid tra Spagna, Marocco e Mauritania. Quest’accordo sancirà il disimpegno della Spagna e la spartizione del Sahara Occidentale, (la parte settentrionale al Marocco e la parte meridionale alla Mauritania).
Occupazione marocchina
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Il 31 ottobre 1975 il Marocco entrò con un esercito di 25.000 uomini nella zona settentrionale del Sahara Occidentale mentre la Spagna cominciò lo sgombero delle aree sotto il proprio controllo.

Anche l’esercito mauritano dopo dieci giorni di bombardamenti iniziò l’occupazione della parte meridionale.

Il 6 novembre 1975 re Hassan II fece organizzare la "marcia verde" con cui 350 mila Marocchini entrarono nel Sahara Occidentale per vanificare l'eventuale referendum per l’autodeterminazione, voluto dal popolo sahrawi e dall’ONU, e per porre le basi di una definitiva appropriazione dei territori sahariani occidentali.

L’esercito marocchino prese via via il controllo delle città, seminandovi il terrore. La popolazione fu costretta a fuggire attraverso il deserto e si raggruppò in tendopoli di fortuna nelle località interne del Sahara.

L’aviazione marocchina intervenne allora per bombardare senza pietà i fuggiaschi, con l’impiego di napalm e bombe a grappolo.
Diventa chiaro che l’obiettivo della monarchia è lo sterminio dei Sahrawi che non vogliono piegarsi.

Polisario

Il 27 febbraio 1976, durante la resistenza all’invasione, il Fronte Polisario proclamò l’indipendenza della Repubblica Araba Sahrawi Democratica, la R.A.S.D., tutt’ora riconosciuta da oltre 70 paesi nel mondo, principalmente africani e sudamericani, dall’Unione Africana ma non dall’ONU.

Iniziò così la fase di emergenza, il Polisario diede la priorità alla messa in salvo della popolazione e organizzò l’esodo attraverso il deserto fino alla vicina Algeria, il solo paese dell’area a non avanzare pretese sul Sahara Occidentale.

La fuga verso la salvezza avvenne in condizioni difficilissime, segnata da diversi giorni senza cibo e senza acqua. La memoria dei rifugiati è marcata indelebilmente da questo terribile passaggio della loro esistenza.

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In questa fase drammatica il Polisario si trovò costretto a organizzarsi su tutti i fronti: la lotta politica con la proclamazione della RASD, l’organizzazione della società sahrawi in esilio e la resistenza armata, anche se in realtà il Polisario non si stancherà mai di sottolineare di essere costretto alla lotta armata per difendersi e per liberare il territorio occupato militarmente ma di essere favorevole alla convivenza pacifica fra tutti i popoli del Maghreb.

Nel 1979 dopo aver decretato un cessate il fuoco unilaterale sul fronte sud, il Polisario concluse un accordo con la Mauritania che uscì definitivamente dalla guerra.

I Sahrawi concentrarono gli attacchi contro il Marocco. Una parte del territorio del Sahara Occidentale fu liberato ad eccezione delle città. Per resistere all’offensiva sahrawi nel 1980 il Marocco iniziò a costruire il “muro di difesa” conosciuto come “il muro della vergogna”.

Carta Sahrawi

Il muro della vergogna, lungo 2.720 chilometri, alzato in sei tappe dal 1980 al 1987.

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Protetto da 160.000 soldati armati, 240 batterie di artiglieria pesante, più di 20.000 Km di filo spinato, mille veicoli blindati e milioni di mine antiuomo proibite dalla convenzione internazionale. La sua costruzione è costata milioni di dollari e il suo mantenimento costa altrettanto.

Questa grande muraglia divide un intero popolo dal suo territorio da un quarto di secolo sotto gli occhi testimoni della comunità internazionale.

Una muraglia militare che ha causato centinaia di vittime da una parte e dall'altra dello stesso.
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Vigilato da decine di radar di lungo e medio raggio, appoggiato da un'aviazione militare tra le più potenti d'Africa, mille carri armati blindati, missili, razzi, artiglieria pesante e bombe a grappolo, questo "crimine contro l'umanità" continua a disobbedire a tutti con le sue mine, il suo filo spinato, le sue fosse, armi, munizioni e soldati.

L’esercito marocchino non fu più in grado di uscire al di là del muro senza subire perdite mentre gli attacchi sahrawi non riuscirono più a penetrare in profondità nel territorio.

Nessuna delle parti in conflitto poté sperare in una vittoria militare sull’altro.

Alla lotta armata il Polisario affiancò quella politica e con l’aiuto della diplomazia algerina nel 1982 la RASD divenne il 51° membro dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), che approvò in seguito una risoluzione per il referendum di autodeterminazione.

La questione non poté più essere ignorata dall’ONU, il cui Consiglio di Sicurezza adottò la risoluzione “690” sulla creazione della missione delle Nazioni Unite per il referendum del Sahara Occidentale.

Il cessate il fuoco fu concordato tra i belligeranti nel 1991 e sorvegliato da una missione di caschi blu (Minurso).
Il referendum d’autodeterminazione fissato dall’ONU per gennaio 1992, che doveva sancire il diritto del popolo sahrawi a scegliere tra l’indipendenza e l’annessione al Marocco, slittò e fu indetto più volte incontrando il continuo boicottaggio del re del Marocco.

Il Marocco insiste nel rifiuto di criteri concordati nel piano di pace e continua a inviare coloni nel Sahara Occidentale che intasano gli uffici Minurso con cause d’appello contro l’esclusione dalle liste elettorali.

Oltre a un’intensa colonizzazione portata avanti dagli anni ’80 il Marocco ha ripreso lo sfruttamento delle miniere di fosfati e dei ricchissimi banchi di pesca lungo le coste atlantiche occupate.

Il Sahara Occidentale è l’ultimo paese africano a non aver ancora ottenuto l’indipendenza formale e sostanziale.
Lo status internazionale del Sahara Occidentale, per l’ONU, è quello di un territorio da decolonizzare, incluso nella lista dei territori “non autonomi ”.

Il Marocco rappresenta un paese che occupa illegalmente il Sahara.

Ad oggi il referendum non si è ancora potuto svolgere, causa i continui rinvii del Marocco e causa le dimenticanze dei nostri governi europei. E ricominciano a soffiare venti di guerra.
La vita nei campi
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I Sahrawi oggi vivono dispersi e divisi tra i territori occupati dal Marocco, o nomadi nei territori liberati mentre la parte più numerosa è stata costretta ad abbandonare la propria terra rifugiandosi nei campi profughi nel deserto algerino.

Si calcola siano duecentomila i Sahrawi residenti nei campi profughi vicino a Tindouf, nell’estremo sud-ovest dell’Algeria.

I campi profughi sahrawi costituiscono un’eccezione: prima di tutto sono autogestiti, in secondo luogo questa autogestione è in mano alle donne, che si sono ritrovate sin dall’inizio a gestire l’intera organizzazione dei campi, quando gli uomini erano impegnati al fronte. Le donne parlano in pubblico, stringono le mani, accolgono nella loro tenda gli stranieri. Molti tabù se ne vanno nel dimenticatoio.

I Sahrawi lottano da trent’anni per non essere isolati, per istruirsi, lavorare, crescere anche nell’esilio come popolo e come individui.

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Gli accampamenti sono quattro, distanti fra loro per motivi di sicurezza: si temeva infatti nei primi tempi un’incursione aerea marocchina, e poi erano presenti seri rischi di epidemie. La zona che venne data dall’Algeria alla popolazione in fuga è l’hammada (deserto) algerino, tra Tindouf ed il confine con la Mauritania. Una delle maledizioni più temute dalle genti del deserto significativamente recita: “Che Dio ti mandi nella hammada!” Questo luogo infatti è un deserto piatto e pietroso, freddo d’inverno e soffocante d’estate (le temperature arrivano ai 45°-50° in estate per scendere poi in inverno a –5°), spesso battuto dall’erih, un vento molto forte che riempie gli occhi e la bocca di sabbia.

Ogni accampamento (wilaya) ha il nome di una città del Sahara Occidentale per evidenziare il legame con la terra lasciata. Gli accampamenti si chiamano quindi: Smara, Dakhla, El Ayoun e Ausèrd. Ogni accampamento (wilaya) è diviso in sei-otto province (dairas), a loro volta suddivise in quartieri (barrios). In ogni daira sono presenti Comitati popolari di base per i settori chiave: educazione, sanità, giustizia, approvvigionamento alimentare, artigianato.

Ogni daira ha un dispensario con le medicine e ogni wilaya un ospedale con un laboratorio di analisi e un reparto di ostetricia-ginecologia. Le vaccinazioni sono obbligatorie e se ci sono casi gravi vengono mandati all’ospedale nazionale di Algeri.

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Per quanto riguarda il settore dell’educazione scolastica in ogni daira ci sono asili nido e scuole elementari a classi miste, affiancati da scuole speciali per bambini disabili con personale sahrawi specializzatosi all’estero. Con il tempo sono state stipulate convenzioni con diversi stati, oggi sono tantissimi i giovani sahrawi che prendono una laurea all’estero, soprattutto in Spagna, Italia, Algeria, Libia e a Cuba.

Oltre agli investimenti nei due settori suddetti sono state aperte scuole professionali. La scuola per donne “27 Febbraio” è una delle più importanti, fu istituita nel 1978 per alfabetizzare le donne e dar loro una formazione come istitutrici, infermiere, segretarie amministrative, e nel tempo informatiche, artigiane.

La religione è vissuta in maniera aperta e tollerante, lontano dai fondamentalismi. E’ a tal proposito che il ministro della sanità della RASD in un importante discorso afferma:
“Noi per esempio riteniamo che il fondamentalismo sia una mal comprensione dell’Islam e del libro sacro del Corano. Per noi l’Islam non è diverso dal cristianesimo e dal giudaismo, per quelli che sono i principi fondamentali. Portano lo stesso messaggio, in lingue diverse. Non c’ è una “casa di Dio”. Dio è ovunque e se vuoi parlare con lui puoi farlo dove vuoi: in casa tua, in mezzo al deserto. Per questo noi non accettiamo nessun Imam e non abbiamo luoghi obbligatori per il rito sacro. Certamente prima di costruire una moschea costruiamo una scuola, un ospedale, un centro per bambini handicappati. Siamo religiosi, ma siamo liberi e tolleranti”.

Dal punto di vista abitativo i profughi sahrawi hanno ricreato una “dimensione casa” con le tende che sono state fornite dagli organismi internazionali, accanto alle tende da un po’ di tempo sono comparsi piccoli edifici costruiti con mattoni di sabbia e acqua non cotti che fungono da cucina.

Da un po’ di anni sono stati introdotti i pannelli solari come fonte di energia alternativa.

Nei campi non c’è acqua corrente: ad Ausèrd e Smara l'acqua viene trasportata con camion-cisterna ad ogni daira, dove poi la popolazione si rifornisce a seconda della composizione familiare. A Dakhla ed El Ayoun invece l'acqua è reperibile in pozzi a pompa manuali o con secchio e corda.

Ovviamente il sistema fognario non esiste e spesso i bagni sono semplici buchi nella sabbia. Il cibo arriva totalmente dagli aiuti umanitari e viene poi distribuito ad ogni famiglia. I rifornimenti hanno durata mensile.

Raramente si mangia carne di dromedario, mentre spessissimo durante il giorno si beve the o latte.
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Oggi miracolosamente ogni accampamento ha un orto (in arabo jenna) coltivato a cipolle, carote, rape, zucche, cocomeri e pomodori. Questi esperimenti, come i Sahrawi non si stancano di puntualizzare, sono fatti in visione del ritorno nel Sahara e in modo assoluto non in vista di un radicamento nella zona.

Sempre con l’obiettivo di integrare l’alimentazione negli accampamenti si pratica l’allevamento, a livello familiare e a livello statale, quasi ogni famiglia alleva capre, pecore e a volte dromedari.

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Nei campi profughi come nel Sahara occidentale ogni occasione è buona per sedersi insieme sul tappeto e bere il the tradizionale.

Questo rito richiede l’abilità di chi lo prepara e un po’ di tempo, infatti la tradizione vuole che vada preso per tre volte di fila, la prima volta amaro come la vita, la seconda dolce come l’amore, la terza soave come la morte.

I Sahrawi nei campi da un lato conservano le loro tradizioni per quanto sia possibile, dall’altro sperimentano, crescono come popolo restando aperti a quello che arriva dall’esterno. Emblematico è l’uso dei pannelli solari. La mentalità sahrawi è aperta ai mutamenti in un costante gioco di mediazione fra tradizione e modernità.

I territori occupati
Per i Sahrawi la vita nei territori occupati dall’esercito marocchino è particolarmente complicata, in questi territori tutti i Sahrawi sono considerati dei nemici.

Qualunque persona sospettata di simpatie per il Polisario viene arrestata. La polizia militare tiene sotto stretto controllo la popolazione. Tutta l’informazione è controllata e filtrata, i giornalisti stranieri ammessi sono rari, ben selezionati, e comunque mai lasciati liberi di muoversi.
L’esercito di occupazione sorveglia le uscite dalle città, per impedire ai Sahrawi di fuggire e a questo scopo viene tolto loro anche il passaporto. Ai Sahrawi è impedita la costituzione di associazioni, anche quelle a scopo sociale.

Accanto a quella militare, la presenza di civili marocchini è aumenta nel corso degli anni, i coloni sono reclutati grazie a un incentivo economico.

La scuola nei primi tempi discrimina i Sahrawi mentre in un secondo momento l’educazione è utilizzata come mezzo per far perdere ai giovani sahrawi i riferimenti della propria cultura.

Le perquisizioni senza mandato e l’arresto senza imputazioni sono la normalità. I detenuti sono posti in centri segreti, isolati da ogni contatto con l’esterno. I processi non vengono mai celebrati, tutto è coperto dal silenzio ufficiale. Le notizie tuttavia riescono a trapelare, Amnesty International e altre organizzazioni per la difesa dei diritti umani, denunciano fin dall’inizio la gravissima situazione. La scomparsa degli arrestati è diffusa su larga scala, è una tecnica del regime per destabilizzare la famiglia e per terrorizzare la popolazione. Centinaia sono, fin dai primi anni, i desaparecidos, tra cui si contano uomini, donne ma anche vecchi, bambini e addirittura neonati, e la loro lista continua ad allungarsi anche ai nostri giorni. Tra le pratiche usate per eliminare gli arrestati in segreto c’è anche quella di lasciar cadere le vittime da elicotteri in volo. Si calcola che tra il 1975 e la fine degli anni ’80 oltre 800 Sahrawi siano scomparsi.

L’aspetto più grave è che le violazioni nei territori occupati avvengano alla presenza dei caschi blu e della forza di polizia incorporati nella Minurso, che non intervengono.
I territori liberati
Sono diverse migliaia i Sahrawi che vivono nei territori liberati, cioè la parte interna di Sahara Occidentale al di fuori del muro della vergogna.

Queste persone praticano il seminomadismo, con piccoli spostamenti in funzione dei pascoli. Il modo di vita è ancora tradizionale, sotto la tenda. Gli spostamenti si fanno però con i fuoristrada. I cammelli e le capre servono per il sostentamento della famiglia. Grazie ai loro spostamenti i nomadi sono al corrente di quanto accade nei campi, e la loro fede patriottica è sicura.

Inoltre in questa zona si trovano ancora migliaia di uomini dell’Esercito di Liberazione che aiutano i nomadi mettendo a disposizione le proprie strutture in caso di necessità.

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